Il caso di un rigetto della conversione del permesso di soggiorno, in difetto di valutazione specifica del caso concreto.

 

Il caso ha ad oggetto una richiesta presentata da un cittadino nigeriano, già titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari, ai fini del suo rinnovo e/o conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

 

IL FATTO

Non a caso ho indicato rinnovo “e/oconversione.

Non ci si deve stupire oltremodo, ma nella maggior parte dei casi ci sono problemi di comunicazione tra chi riceve un’istanza relativa ad un permesso di soggiorno e lo stesso istante.

Nel caso in questione il cittadino nigeriano aveva presentato una domanda “di rinnovo” di un permesso per motivi umanitari, tuttavia il contenuto della domanda si presentava, evidentemente, di diversa natura.

Proprio tale natura doveva essere meglio considerata dalla Questura competente.

 

Nelle more dell’entrata in vigore della L. 132/2018, le Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale valutavano, ad ogni richiesta di rinnovo, il permanere della condizione di c.d. vulnerabilità che aveva portato, in prima battuta, al riconoscimento del permesso per motivi umanitari.

Al netto di ogni valutazione nel merito, che comunque non si condivide, lo straniero presentava un’istanza ai fini di un rinnovo che, nella pratica e nei fatti, altro non era se non una richiesta di conversione del titolo di soggiorno.

 

D’altronde gli atti ed i documenti offerti alla competente Questura consistevano in contratti di lavoro, passati e presenti (continuativi), buste paga, dichiarazioni dei redditi e, soprattutto, la stessa Questura competente indicava allo straniero di versare il contributo pari ad Euro 70,46, che lo stesso versava regolarmente.

Tale importo, è esattamente quello previsto per la durata del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, posto che il relativo importo del permesso per motivi umanitari è pari ad Euro 30,46.

Ciò nonostante la Questura rigettava la richiesta dello straniero, peraltro con una motivazione del tutto singolare: lo straniero ha avanzato l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno rilasciato per “motivi umanitari” non avvalendosi, durante il periodo di validità del medesimo, della facoltà di richiedere la conversione del titolo posseduto, in un titolo di soggiorno per motivi di lavoro, così come previsto dalla L. 132/2018.

Per concludere, si indicava che tale provvedimento non necessitava della comunicazione di cui all’art. 10 bis L. 241/1990.

 

IL RICORSO AL T.A.R.

Dapprima veniva impugnato il provvedimento avanti al Tribunale Ordinario, giustamente sottolineando le violazioni occorse nella valutazione della permanenza dei requisiti umanitari che avevano portato al rilascio del permesso. Al di là delle valutazioni sul merito di tale domanda principale, si contestava altresì che – come sopra ampiamente indicato – il contenuto della domanda del cittadino nigeriano non fosse, assolutamente, assimilabile ad una richiesta di rinnovo. Il Giudice Ordinario rigettava il ricorso rispetto ai motivi umanitari, ma concedeva termine per riassumere la domanda relativa ai motivi di lavoro, davanti al Giudice Amministrativo.

Con ricorso in riassunzione al T.A.R. veniva, pertanto, impugnato tale provvedimento, per evidenti profili di illegittimità, formulando una doverosa istanza di sospensione del provvedimento del Questore.

Oltre agli elementi di fatto prodotti ed alla documentazione allegata (tra cui la proroga del rapporto di lavoro al 31.12.2021, data oltre alla quale il ricorrente non avrebbe potuto reperire ulteriori occupazioni posta la scadenza del permesso di soggiorno), di per sé dimostrativa del diritto del ricorrente ad ottenere tale permesso, la difesa argomentava come segue.

 

È fatto obbligo alla P.A., secondo costante giurisprudenza amministrativa oltre che ordinaria, di considerare sempre nuovi elementi sopraggiunti, che non consentano anche il rilascio di permesso di soggiorno per motivi differenti da quelli per i quali è stato richiesto, sanando così irregolarità amministrative.

Così la Giurisprudenza Amministrativa (Consiglio di Stato, sez. I, adunanza 17.06.2020 n. affare 00615/2020) richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia nell’affermare che, risultando evidente dagli atti versati che il ricorrente abbia rappresentato e documentato la propria condizione lavorativa, chiedendo proprio sulla base di questa la conversione del permesso di soggiorno in permesso per motivi di lavoro, abbia diritto al rilascio del permesso anche ad un titolo diverso da quello precedentemente posseduto.

Nel caso in questione, pertanto, la Questura incorre in un evidente errore su almeno due fronti, anche e soprattutto quando indica che il ricorrente non avrebbe chiesto tempestivamente la conversione.

In questo caso, ad esempio, la documentazione prodotta dal ricorrente avrebbe dovuto modificare la valutazione della PA poiché dimostrava di avere una condizione che gli consentiva di ottenere il titolo di soggiorno che – per facta concludentia – aveva richiesto.

Il decreto adottato dal Questore era pertanto del tutto illegittimo, caratterizzato da vizi sostanziali significativi.

Ciò nonostante l’interpretazione della Questura fosse evidentemente volta alla formalizzazione di una domanda di permesso per motivi di lavoro, come ampiamente indicato con riferimento agli importi pagati per la formalizzazione della domanda stessa.

 

Ulteriormente si ponevano profili di illegittimità del provvedimento della P.A. legati alla mancata considerazione di abbondante documentazione lavorativa prodotta (da ultimo, la proroga del contratto di lavoro).

A parere di chi scrive in casi similari è doveroso proporre istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato.

Evidenziata la sussistenza – in diritto – del fumus boni iuris, erano altrettanto evidenti i profili del periculum in mora. Al netto di ipotetiche ed ulteriori proroghe (anche) dei divieti di respingimento per via della situazione pandemica, non poteva essere ignorata la concreta possibilità per la quale le condizioni di vita del ricorrente avrebbero potuto essere irrimediabilmente pregiudicate; posto che al netto della proroga al 31.12.2021 della validità dei permessi di soggiorno, le espulsioni sono ad oggi regolarmente eseguite.

Ciò detto, nessuna espressa previsione è indicata nel D.L. 23.07.2021 n. 105 (proroga stato di emergenza) rispetto alla proroga della validità dei permessi di soggiorno, ogni riflessione in merito è meramente interpretativa e non sorretta da fonti scritte, allo stato.

In ogni caso, si deve considerare che le proroghe c.d. emergenziali di cui al precedente D.L. 56 / 2021, ricomprendono la proroga della validità dei permessi di soggiorno scaduti dopo il 31 gennaio 2020, pertanto il ricorrente non poteva beneficiare nemmeno di tale possibilità, vista la scadenza del proprio permesso di soggiorno e la data del provvedimento impugnato, datato 2019.

Tale denegato scenario si sarebbe tradotto non solo nel pregiudizio alla capacità lavorativa del ricorrente, privato così di ogni possibile tutela anche ex art. 35 Cost. alla luce della potenziale perdita di ogni fonte di reddito, ma le conseguenze di tale denegata possibilità avrebbero ovviamente investito anche la vita privata e, soprattutto, sociale, del ricorrente, che si sarebbe trovato in una condizione di assoluta vulnerabilità e privo di ogni forma di tutela.

 

LA SOSPENSIVA DEL T.A.R.

Il T.A.R. per l’Emilia Romagna (I sezione) ha pertanto emanato ordinanza cautelare N. 403/2021, con la quale accoglieva l’istanza di sospensione avanzata dal ricorrente, ordinando alla P.A. di riesaminare la posizione dello stesso alla luce degli elementi dedotti in ricorso, ritenuti meritevoli di accoglimento già ad un primo esame sommario.

 

(Ordinanza T.A.R. Emilia Romagna n. 403/2021)

 

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Avv. Filippo Antonelli

Un caso particolare in relazione all’art. 147 D.Lgs. 219/2006 tra incertezza normativa e giurisprudenziale.

 

  1. Introduzione alla fattispecie: un reato sempre più diffuso.

Il futuro delle farmacie online che si occupano principalmente di importazione ed esportazione di farmaci, è legato indissolubilmente alle scelte che i Governi prenderanno in merito a questa delicata tematica.

Il caso che ha dato spunto al presente contributo era riferito ad una c.d. Farmacia Canadese; negli ultimi anni, infatti, le farmacie canadesi hanno perso il diritto di fare pubblicità (ad esempio negli USA) perché il Dipartimento di Giustizia americano ha evidenziato come numerose farmacie online, che apparivano sulla carta come “canadesi”, vendessero in realtà medicinali provenienti da altri Stati.

In Italia è penalmente sanzionato l’acquisto di farmaci per i quali occorrerebbe prescrizione medica, di conseguenza gran parte dello shopping online farmaceutico è vietato.

In particolare, l’art. 55 del D.Lgs. 219/2006 sanziona penalmente l’assenza di autorizzazione all’importazione.

L’autorizzazione in oggetto è quella rilasciata dall’A.I.F.A. (associazione italiana del farmaco).

Il principale elemento valutato dalla P.G., molto spesso quella in servizio presso dogane ed aeroporti, è il quantitativo acquistato/importato, elemento inevitabilmente collegato al c.d. uso personale.

Fin da subito si può pensare alle fattispecie in tema di stupefacenti, che in qualche modo rientrano all’interno della medesima ratio legis, costituendo anch’esse fattispecie c.d. di pericolo e che portano la tutela penale ad anticipare il proprio intervento a salvaguardia del bene giuridico protetto.

È quindi probabile che all’esito dei controlli doganali volti a verificare il contenuto della spedizione (medicinali falsificati o non conformi) la P.G. faccia queste valutazioni.

Si precisa tuttavia che la Corte di Cassazione non si è mai espressa (a meno di sviste dello scrivente) sul punto e, pertanto, manca il riferimento giurisprudenziale più autorevole.

Certamente la cornice edittale della contravvenzione prevede una risposta sanzionatoria che nella maggioranza dei casi porterà all’emissione di un decreto penale di condanna, con conseguente ammenda e verosimilmente la sospensione condizionale della pena, che può essere tuttavia una spada di Damocle.

L’opportunità o meno di usufruire della sospensione condizionale non è oggetto di questo contributo, ma certamente tale valutazione dovrà guidare il legale nella strada da scegliere a tutela del proprio assistito.

 

  1. La fattispecie normativa

Si riporta il testo dei primi due commi dell’art. 147 D.Lgs. 219/2006:

  1. Il titolare o il legale rappresentante dell’impresa che inizia l’attività di produzione di medicinali o materie prime farmacologicamente attive senza munirsi dell’autorizzazione di cui all’articolo 50, ovvero la prosegue malgrado la revoca o la sospensione dell’autorizzazione stessa, e’ punito con l’arresto da sei mesi ad un anno e con l’ammenda da euro diecimila a euro centomila. Le medesime pene si applicano, altresì, a chi importa medicinali o materie prime farmacologicamente attive in assenza dell’autorizzazione prevista dall’articolo 55 ovvero non effettua o non fa effettuare sui medicinali i controlli di qualità di cui all’articolo 52, comma 8, lettera b). Tali pene si applicano anche a chi prosegue l’attività autorizzata pur essendo intervenuta la mancanza della persona qualificata di cui all’articolo 50, comma 2, lettera c), o la sopravvenuta inidoneità delle attrezzature essenziali a produrre e controllare medicinali alle condizioni e con i requisiti autorizzati.
  2. Salvo che il fatto non costituisca reato, chiunque mette in commercio medicinali per i quali l’autorizzazione di cui all’articolo 6 non è stata rilasciata o confermata ovvero è stata sospesa o revocata, o medicinali aventi una composizione dichiarata diversa da quella autorizzata, è punito con l’arresto sino a un anno e con l’ammenda da duemila euro a diecimila euro. Le pene sono ridotte della metà quando la difformità della composizione dichiarata rispetto a quella autorizzata riguarda esclusivamente gli eccipienti e non ha rilevanza tossicologica.

 

Mentre il primo comma individua l’attività tipica di un soggetto qualificato (il titolare o il legale rappresentante di un’impresa che inizia una specifica attività di produzione di medicinali o materie prime farmacologicamente attive), il secondo comma individua un soggetto attivo generico: chiunque.

Sempre il secondo comma fa riferimento all’art. 6 del medesimo decreto, di cui infra:

  1. Nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del regolamento (CE) n. 726/2004.
  2. Quando per un medicinale è stata rilasciata una AIC ai sensi del comma 1, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti ad autorizzazione ai sensi dello stesso comma 1; le AIC successive sono considerate, unitamente a quella iniziale, come facenti parte della stessa autorizzazione complessiva, in particolare ai fini dell’applicazione dell’articolo 10, comma 1.
  3. Il titolare dell’AIC è responsabile della commercializzazione del medicinale. La designazione di un rappresentante non esonera il titolare dell’AIC dalla sua responsabilità legale.
  4. L’autorizzazione di cui al comma 1 è richiesta anche per i generatori di radionuclidi, i kit e i radiofarmaci precursori di radionuclidi, nonchè per i radiofarmaci preparati industrialmente.

 Il richiamo all’art. 6 non è altro che la spiegazione della tipologia di autorizzazione necessaria al fine di considerare priva di rilevanza penale la fattispecie principale: la presenza o meno di una autorizzazione specifica da parte dell’A.I.F.A.

 

  1. Altri orientamenti giurisprudenziali e Dottrina.

Non vi sono orientamenti univoci e non è dato conoscere pronunce della Corte di Cassazione sul tema, pertanto il panorama è caratterizzato principalmente da interpretazioni dottrinali e da pochissime pronunce delle Corti di merito.

In particolare si segnala una pronuncia del Tribunale del Riesame di Roma, datata 02.09.2016, la quale afferma che è concessa l’importazione di un farmaco in Italia acquistato via Internet per uso personale.

La vicenda coinvolgeva un soggetto affetto da epatite C, infezione che negli ultimi anni ha visto emergere una terapia efficace a base di Ledipasvir (90 mg) e Sofosbuvir (400 mg), associati in un’unica compressa che in Italia ha un costo esosissimo pari a 44.000 Euro, fornita gratuitamente ai pazienti più gravi con costi a carico del SSN.

L’uomo era affetto da una forma non grave, pertanto avrebbe potuto accedere alla terapia solamente a partire dal 2017 e, per non attendere sino a tal punto, ha deciso di acquistare online il farmaco, distribuito dall’India, al costo di Euro 2.500, sequestrato all’aeroporto di Ciampino.

Il collegio romano si esprimeva a favore del dissequestro affermando che la contravvenzione alla base del provvedimento prevede la condotta di chi importa medicinali senza l’autorizzazione al fine di messa in commercio.

Pertanto l’importazione che costituisce reato è quella di chi abbia introdotto in Italia medicinali per farne successivo commercio, non anche quella di chi, come nel caso di specie, li abbia introdotti per farne esclusivo uso personale.

Il tribunale di Roma segnala l’assenza di giurisprudenza di legittimità e fa riferimento alle (poche) sentenze di merito che, sulla base delle direttive comunitarie in materia, ritengono sussistere rilevanza penale dell’importazione solo per i casi di commercializzazione dei prodotti, pertanto ai fini della vendita (Tribunale di Genova, 17.05.2010; Tribunale Bari, 30.01.2012).

La quantità limitata dei prodotti importati, congiuntamente all’accertata malattia dell’indagato e alla prescrizione medica prodotta, non posso far dubitare dell’uso esclusivamente personale.

Certo non mancano eccezioni sollevate dagli esperti del settore, con riferimento al medicinale in questione, come affermato dal presidente dell’Associazione EpaC onlus: è necessario considerare che l’importazione tramite prescrizione medica di un medicinale già registrato in Italia, non sarebbe comunque consentita.

Allora il discorso si sposta inevitabilmente sulla qualità e tipologia del farmaco acquistato, parametri da tenere necessariamente in considerazione.

Certamente qualora negli atti di indagine non sia specificato, ad esempio, il principio attivo di quanto in sequestro, gioverà pensare di richiedere una perizia tecnica al fine di asseverare le specificità del farmaco, ovvero di qualsiasi prodotto che sia effettivamente stato spedito all’acquirente (soprattutto nel caso che ispira questo contributo, avendo l’imputato una prescrizione medica; diverso sarebbe qualora vi siano meno certezze a sostegno della posizione del soggetto attivo).

Vero è che ai nostri fini la valutazione deve essere improntata al fine ultimo di tale condotta, ovvero la messa in commercio in assenza di uso esclusivamente personale.

Si segnala che la Procura di Milano sta procedendo ad una richiesta di archiviazione su larga scala con riferimento a queste notizie di reato: se le quantità importate sono elevate, le indagini proseguiranno, altrimenti sarà automatica l’archiviazione purché sia constatato l’uso personale.

La norma infatti prescrive che sia necessaria l’autorizzazione dell’A.I.F.A. ma tale autorizzazione non può essere richiesta da chiunque, poiché bisogna disporre di personale qualificato e mezzi tecnico-industriali. Non si può pensare che chi ordina un farmaco online possa anche solo in astratto munirsi di tale autorizzazione: la condotta richiesta sarebbe assolutamente inesigibile da un punto di vista giuridico.

Perché possa essere accertato l’uso esclusivamente personale, tuttavia, si richiede un acquisto di quantità “modeste”.

Il punto focale tuttavia sta nel fatto che nessuno ha mai specificato la soglia della modesta quantità nel caso in oggetto.

A sostegno del povero panorama giurisprudenziale giungeva nel 2017 un chiarimento dell’allora Ministro della Salute Lorenzin, che emanava una circolare (GAB 003261-P-23/03/2017) nella quale affermava che non può sussistere una valida alternativa terapeutica per il paziente italiano, quando il farmaco autorizzato in Italia non è effettivamente accessibile a tutti, in quanto troppo costoso.

Pertanto il parametro del costo economico del farmaco deve essere necessariamente incluso nelle valutazioni sulla rilevanza penale del fatto.

In effetti sono diversi i procedimenti penali in corso a seguito delle denunce da parte degli uffici doganali che sequestrano i pacchi destinati agli acquirenti online.

Si potrebbe obiettare che la normativa sanziona la mancanza di autorizzazione a monte dell’importazione, la mancanza di strumenti atti a controllare il prodotto, ma certamente non si potrà considerare illecita l’importazione di medicinali provenienti da farmacie aventi sede in UE.

L’interpretazione della normativa è tuttavia, allo stato, molto restrittiva.

 

  1. Il caso di specie

 Nel caso sottoposto alla mia attenzione un medico riceveva la notifica di un decreto penale di condanna per la violazione del secondo comma dell’art. 147, con conseguente condanna al pagamento di un’ammenda e applicazione della sospensione condizionale della pena.

In particolare il soggetto in questione aveva effettuato, più di tre anni prima, un ordine online presso una farmacia c.d. canadese, come anticipato in premessa, “fidandosi” delle rassicurazioni che i siti in questione pubblicano, con tanto di bollini per assicurare i pagamenti e le indicazioni certified by Visa.

A tutti gli effetti, l’impressione non è quella di trovarsi nell’illegalità.

Tuttavia, le operazioni conducono alla spedizione del medicinale dall’India (paese quindi extra-UE) che allerta immediatamente la polizia di frontiera aeroportuale la quale, valutato il quantitativo (più di 300 pastiglie) presente all’interno della spedizione, decide di sottoporre a sequestro la stessa e comunicare la notizia di reato alla Procura competente.

Preliminarmente va considerato e sottolineato che il soggetto in questione aveva acquistato un farmaco, con il medesimo principio attivo di quello venduto in Italia, necessario e consigliato dal proprio medico specialista in virtù della patologia dell’indagato. L’indagato era infatti a conoscenza del principio attivo del farmaco acquistato in quanto reso edotto dal proprio medico specialista.

La scelta di effettuare l’acquisto online era dovuta unicamente a questioni economiche: il rapporto tra il prodotto venduto in Italia (circa 90 Euro per il fabbisogno di 15 giorni) e quello acquistato online (circa 130 Euro per il fabbisogno annuale) è a dir poco impari.

Le principali questioni pertanto attengono al quantitativo e al conseguente uso personale.

Altra questione attiene al fatto che durante le indagini la P.G. non ha identificato il principio attivo del farmaco sequestrato, pertanto l’indagato non sa nemmeno cosa gli sia stato spedito: potrebbe essere un prodotto non vietato, potrebbe non essere neanche un farmaco.

Un’ulteriore considerazione attiene altresì alla qualità del farmaco, che contiene il medesimo principio attivo di quello venduto (a caro prezzo) in Italia, con riferimento alla possibile equiparazione dei c.d. farmaci equivalenti.

Infine si consideri la necessità di effettuare una perizia sul farmaco in questione, essendo incerta addirittura la sua composizione chimica in base agli atti di indagine.

Certamente l’obiettivo della Procura era quello di dimostrare la messa in commercio del farmaco importato, ma dagli atti di indagine tale obiettivo non era di così facile realizzazione.

 

Il Giudice del Tribunale di Forlì, con sentenza n. 84 / 2021, assolveva l’imputato perché il fatto non sussiste.

In particolare l’imputato, che si era sottoposto ad esame, aveva pacificamente ammesso ogni fatto contestato, ma sostenendo che la propria patologia ed i costi esorbitanti del farmaco a lui prescritto da un medico specialista, potessero ampiamente escludere il pericolo della messa in commercio.

Ed infatti il Giudice indicava che non sia stata dimostrata l’intenzionalità commerciale dell’acquisto del prodotto e dell’introduzione delle pastiglie sul territorio italiano, non potendosi elevare il mero dato numerico ad elemento costitutivo del reato.

 Anche tale aspetto diventa importante, ovvero l’esclusione dell’automatica rilevanza penale dell’acquisto di un numero elevato di pastiglie, in presenza di ulteriori condizioni quali una patologia, una prescrizione medica ed il costo da sostenere.

In particolare, la quantità non modica del farmaco acquistato risulta essere spesso indice di notizia di reato, mentre in questo caso viene sostanzialmente compressa la sua importanza, ma nella complessiva valutazione del caso concreto.

 

Tale pronuncia si inserisce in un panorama giurisprudenziale particolarmente scarno e povero, nonostante l’estrema diffusione del reato in oggetto.

 

  1. Conclusioni

 Certamente il divieto in oggetto a parere di chi scrive si presenta come anacronistico, a maggior ragione se si considerano le differenti normative all’interno dell’UE.

Le valutazioni del caso preso ad esempio in questo contributo, in assenza di parametri giurisprudenziali granitici e consolidati, certamente devono tenere conto di tutti i parametri citati: definizione di quantitativo modesto, uso esclusivamente personale, condizione clinica/patologica dell’imputato, costo economico del farmaco “equivalente” venduto in Italia rispetto a quello acquistato, principio attivo non analizzato in sede di indagini ed incertezza sul contenuto del prodotto sequestrato, liceità del principio attivo del farmaco equivalente ed altresì la valutazione di liceità della pagina di e-commerce in sede di acquisto.

Se gli spunti difensivi indicati non dovessero essere sufficienti, certamente si ritiene opportuno indicare, oltre a testimoni specialisti (medici o esperti farmacisti), anche una perizia che vada a fondo della problematica.

Tutto ciò augurandosi che la Giurisprudenza di legittimità possa intervenire, a definizione delle problematiche interpretative ed operative sempre più presenti in siffatte fattispecie.

Naturalmente anche un intervento legislativo sarebbe auspicabile.

 

Avv. Filippo Antonelli

Alcuni spunti tra normativa e giurisprudenza sul giudizio di meritevolezza e i reati ostativi all’ingresso e alla permanenza dello straniero sul territorio italiano.

Il tema in oggetto è piuttosto delicato e può costituire, per chi si occupa di diritto dell’immigrazione, un nervo scoperto.

In occasione di rinnovi o valutazioni circa il rilascio/rifiuto/diniego/revoca di un permesso di soggiorno, infatti, è previsto che le Questure, quali Autorità Amministrativa competenti, svolgano una valutazione specifica sul soggetto richiedente circa la “meritevolezza” di un titolo di soggiorno.

Tale analisi è fondamentalmente una valutazione sulla condotta che il cittadino straniero tiene ed ha tenuto sul territorio dello Stato.

Si tratta di un’analisi molto importante e, anzi, cruciale per il prosieguo della permanenza sul territorio dello straniero; purtroppo tale valutazione è spesso effettuata fuori dai parametri di Legge, per alcune prassi di alcuni Uffici Immigrazione.

Ma vediamo nello specifico di cosa si tratta.

Le norme. Pericolosità sociale dello straniero e reati c.d. ostativi

Per pericolosità sociale normativamente si intende una condizione soggettiva caratterizzata da precedenti condanne di particolare rilievo, una condotta recidivante abituale o professionalità nel reato, in ogni caso una accertata tendenza a delinquere.

Questi indici denotano pericolosità sociale che, lo si sottolinea sin d’ora, non può essere nemmeno intravista nell’esistenza di una sola condanna o di semplici segnalazioni di polizia.

A norma dell’art. 203 c.p. viene considerata socialmente pericolosa la persona che commette un fatto previsto dalla legge come reato ed è probabile che ne commetta di nuovi: tale giudizio influisce sulla misura e sulla qualità della pena, impedisce la concessione della sospensione condizionale e nel caso dei minorenni del perdono giudiziale.

Le qualità di una persona socialmente pericolosa sono quelle che possono essere individuate secondo un’attenta lettura dell’art. 133 c.p., ovvero la natura/specie/mezzi/oggetto/TEMPO/luogo e modalità dell’azione criminosa, che dovranno essere attentamente vagliati ai fini di una prognosi di pericolosità sociale.

In particolare sarà importante il “fattore tempo”, poiché le condotte antisociali devono essere necessariamente circoscritte nel tempo in cui furono compiute, senza pregiudicare la valutazione specifica di una persona a distanza, ad esempio, di molti anni dal compimento di un fatto costituente reato.

Altri fattori importanti sono la gravità del danno o del pericolo cagionati, l’intensità dell’elemento soggettivo, i precedenti penali ecc.

Ma il fattore più importante in tale valutazione deve necessariamente essere quello della condotta contemporanea e susseguente al reato, unito al fattore delle condizioni di vita del soggetto (personali e familiari).

Purtroppo spesso si assiste a prassi deplorevoli di alcune Questure che rigettano istanze di rinnovo o di rilascio del permesso di soggiorno anche in base ad una sola denuncia, magari risalente nel tempo.

Le considerazioni sopra svolte devono essere accompagnate dall’analisi dei presupposti di cui all’art. 1 D.Lgs. 159/2011, in quanto la Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 24 e 25 del 27.02.2019, recependo la sentenza della Corte EDU (De Tommaso – 23.02.2017), ha ridisegnato gli ambiti di operatività del sistema delle misure di prevenzione, le quali sono gli strumenti giuridici tipici da adottare nei confronti dei c.d. socialmente pericolosi.

La Consulta afferma, in tali importanti pronunce, che la locuzione “coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, deve concretizzarsi in categorie di reato di cui l’Autorità deve dare conto in quanto si tratti di:

  • delitti commessi in un significativo arco temporale dal soggetto;
  • che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui;
  • i quali profitti, a loro volta, costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Il T.U. Immigrazione e non solo, a livello normativo, richiede espressamente la presenza, ai fini di una revoca del permesso di soggiorno di condanne, ovvero titoli di reato per cui vi sia stata una condanna, indipendentemente dalla gravità del fatto o dall’entità della pena irrogata, anche se condizionalmente sospesa.

In particolare si consideri, ad esempio, l’art. 5 T.U. Immigrazione il quale al comma 5 prescrive che la pericolosità sociale debba essere valutata e bilanciata tenendo conto dell’entità dei legami familiari, della loro natura, dell’esistenza ulteriore di legami familiari nel Paese d’origine dello straniero.

Tra le altre valutazioni, si tenga in considerazione anche quella prospettata dall’art. 4 co. 3 T.U. Immigrazione, secondo il quale non è ammesso in Italia lo straniero che … sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato … o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., per i reati previsti dall’art. 380 co. 1 e 2 c.p.p. ovvero per reati inerenti gli stupefacenti [tra questi anche la fattispecie di lieve entità ex art. 73 co. V TU stupefacenti – Corte Cost. n. 277/2014], la libertà sessuale …

È molto importante ribadire tale concetto: senza una condanna, anche non definitiva, non è legittima nessuna valutazione di pericolosità sociale.

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I reati ostativi

Il reato ostativo è un termine il cui concetto è naturalmente di derivazione penalistica e l’art. 4 co. 3 T.U. Immigrazione richiama espressamente tale categoria, che ricomprende delitti ritenuti estremamente gravi per il nostro ordinamento, per i quali non è applicabile (ad esempio) la sospensione condizionale della pena oppure per i quali non è possibile accedere ai benefici carcerari (tranne la liberazione anticipata).

Le tipologie di reato considerate sono quasi le stesse previste dall’art. 4 bis Ord. Pen., ma la norma di riferimento, oltre a quelle citate (artt. 4 co. 3 – art. 5 co. 5 e co. 5bis – art. 9 T.U.I.), è certamente l’art. 380 c.p.p.

Si tratta di fattispecie di reato per le quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, reati inerenti alle sostanze stupefacenti, alla libertà sessuale, ovvero ancora al favoreggiamento della immigrazione clandestina ed emigrazione clandestina, al reclutamento di persone destinate alla prostituzione nonché allo sfruttamento della prostituzione.

Alcuni esempi pratici:

È un elenco esemplificativo, ma non esaustivo.

La giurisprudenza di riferimento

La Giurisprudenza di merito, quella di Legittimità nonché quella amministrativa, sono per lo più concordi nel ritenere che la P.A. non possa adottare alcun automatismo in relazione alla valutazione di pericolosità sociale ma, anzi, questa debba essere sempre e comunque accompagnata da una valutazione nel merito, specifica e plasmata sul caso concreto.

Occorre dunque valutare se lo straniero costituisca una minaccia concreta ed attuale, sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza dello Stato, prevalente rispetto ad ogni interesse confliggente.

Ulteriormente deve essere tenuta in grande considerazione la contestuale presenza ovvero l’esistenza di una famiglia, di una vita familiare e privata di rilievo, anche a norma delle modifiche introdotte dal recente D.L. 130/2020.

Ad esempio (Cass. Civ. S.U. n. 15750/2019in tema di autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore straniero … il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso TU considera ostativi … non di meno la detta condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico… e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore … al quale la norma attribuisce valore prioritario. [D’altronde la Corte Costituzionale con sentenza n. 202/2013 dichiarava la illegittimità dell’art. 5 co. 5 TUI nella parte in cui prevedeva che la valutazione discrezionale si applichi solo allo straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento o al familiare ricongiunto, e non anche allo straniero che abbia legami familiari nel territorio]

Ed è anche il Consiglio di Stato (sez. III del 29.11.2018) a sostenere che la pericolosità sociale non va tipizzata solo su una o più precedenti sentenze penali di condanna.

Non può l’amministrazione limitarsi a richiamare, nei propri provvedimenti di rigetto o di rifiuto, le condanne subite (e le segnalazioni di polizia) senza compiere alcun giudizio sull’essere lo straniero attualmente un pericolo per la sicurezza.

Anche a fronte di un reato rientrante nelle ipotesi di cui al citato art. 381, si rende necessaria una più ampia valutazione di concreta e attuale pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, che va argomentata, nell’ambito di una necessaria visione di insieme, sulla base di ulteriori elementi oggettivi di fatto, di cui occorreva dare adeguatamente conto nell’ambito di un’esaustiva e perspicua motivazione, qui non avutasi.

A questo punto vengono certamente in rilievo le disposizioni del T.U. Immigrazione relative alla valutazione congiunta con le norme del codice penale in tema di pericolosità, ovvero una valutazione che tenga conto di circostanze di tempo e modalità delle condotte, di riferimenti temporali che consentano di definire completa la valutazione di pericolosità sociale e soprattutto l’abitualità criminosa ai sensi dell’art. 203 c.p.

Sulla stessa scia il Tribunale di Napoli (24.02.2019) che afferma la illegittimità del diniego anche se la pericolosità sociale non è più attuale, per indici risalente nel tempo, poiché si è già detto di segnalazioni a tutti gli effetti non decisive nella valutazione.

Così anche per la Suprema Corte (Cass. Civ., sez. VI, n. 15785/2013) in base al quale sono le sentenze definitive di condanna ad essere considerate ai fini della valutazione della gravità della fattispecie delittuosa. Non può esserci un giudizio meccanicistico sulla gravità dell’asserito reato commesso, ma solo un giudizio sulla gravità di un reato commesso e di cui ad una sentenza di condanna.

Ulteriormente e nello stesso senso, si consideri la Giurisprudenza di merito (Tribunale di Catania, ordinanza del 15.02.2019 – R.G. 13254/2017), che considera rilevanti ai fini di un giudizio di revoca solamente le fattispecie penali per le quali si è stati condannati con sentenza definitiva.

Si legge, inoltre, in tale pronuncia che, nonostante la condanna per fattispecie sussumibili in quelle di cui all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p., l’analisi della sussistenza della suddetta causa di esclusione che comporta la revoca […] impone, verificata la commissione di uno dei reati di cui all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p., che il Giudice compia una valutazione individuale del singolo caso specifico per stabilire se il richiedente abbia tenuto o abbia una condotta di vita che costituisce pericolo per la sicurezza dello Stato ovvero per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica.

 

Impugnabilità dell’annullamento in autotutela della TARI

Con una pronuncia sull’impugnazione dell’annullamento in autotutela, la CTP di Pesaro ha offerto interessanti spunti di riflessione relativi alla TARI.

Dispositivo di Sentenza

  • Esempio di impugnazione dell’annullamento in autotutela
  • La infedele denuncia
  • L’autonoma impugnabilità dell’annullamento in autotutela
  • Taglio della tassa

Esempio di impugnazione dell’annullamento in autotutela

Con una recente sentenza, la Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro si è confrontata con un’interessante vicenda avente a oggetto l’impugnazione dell’annullamento in autotutela della PA, che merita di essere approfondita.

Il caso in esame trae origine da una causa da me patrocinata per impugnare un provvedimento di annullamento conseguente ad una richiesta di revisione in autotutela di un avviso di accertamento TARI, notificato per infedele denuncia relativa a 5 anni di imposta (2014-2018).

In particolare il provvedimento di annullamento in autotutela costituiva a tutti gli effetti una nuova imposizione, effettuata a seguito di un sopralluogo precedentemente omesso, nei confronti di una ditta che aveva (come documentato in corso di causa) sempre notiziato l’Amministrazione della produzione di rifiuti speciali nella propria superficie. Tale nuova imposizione consisteva in un passaggio, particolarmente significativo, di un’area aziendale che veniva triplicata dal primo accertamento al secondo.

Sosteneva la contribuente che tale passaggio inducesse in errore e, soprattutto, andasse a sostituire negli effetti il primo accertamento.

Oggetto della controversia era anche la somma esorbitante richiesta dalla P.A. per lo smaltimento dei rifiuti urbani, se rapportata con quella già spesa negli stessi anni per lo smaltimento in proprio attraverso ditte specializzate, dei rifiuti speciali prodotti dalla contribuente. Ulteriormente, negli anni oggetto di contestazione, si era appurato che non venisse nemmeno svolto il servizio di raccolta rifiuti da parte del Comune.

La infedele denuncia

La C.T.P. di Pesaro, in proposito, ha innanzitutto accertato che la ricorrente è sempre stata collaborativa e non si è mai macchiata della c.d. “infedele denuncia”, emergendo tra la documentazione prodotta le comunicazioni già precedentemente inoltrate negli anni passati all’Ente, indicando la produzione di rifiuti speciali e, pertanto, riconoscendo che l’attività e la superficie dichiarate destinate alla produzione di rifiuti speciali fossero già note alla P.A.

L’autonoma impugnabilità dell’annullamento in autotutela

Ulteriormente la Commissione Tributaria Provinciale di Pesaro ha vagliato attentamente l’aspetto, dirimente, attorno al quale l’Amministrazione puntava la propria costituzione in giudizio.

In particolare l’Ente accertatore riteneva che il ricorso proposto dalla contribuente fosse inammissibile, per essere decorso il termine di impugnazione del primo avviso di accertamento, posto che quello impugnato sarebbe solo una semplice rettifica del primo.

A sostegno della sua tesi l’Amministrazione citava la pronuncia n. 25673/2016 della Corte di Cassazione, con riferimento ad un particolare passaggio: in tema di contenzioso tributario, l’annullamento parziale adottato dall’amministrazione in via di autotutela o comunque il provvedimento di portata riduttiva rispetto alla pretesa contenuta in atti divenuti definitivi, non rientra nella previsione di cui all’art. 19 D.Lgs. 546 del 1992 e non è quindi impugnabile, non comportando alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto e consolidato per la mancata e tempestiva impugnazione del precedente accertamento, laddove, invece, deve ritenersi ammissibile un’autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa.

Già in tale pronuncia risiede l’aspetto dirimente, evidentemente non colto dall’Ente ma sottolineato dal sottoscritto e condiviso dalla Commissione Provinciale anche alla luce della successiva ordinanza della Corte di Cassazione, n. 29595 del 2018: l’autoannullamento comporta nuova imposizione (non importa se quantitativamente più contenuta rispetto a quella iniziale) mediante deduzione di presupposti e materie imponibili dapprima non rappresentati (ad es. con ripresa a tassazione di altre voci e causali imponibili non contemplate nel primo accertamento).

In effetti la Commissione Tributaria Provinciale aderisce a tale ineccepibile principio di diritto, individuando espressamente che il secondo accertamento (quello scaturente dall’autotutela) fosse stato eseguito con apposito sopralluogo e in base agli elementi concreti acquisiti in loco: l’Ufficio ha abbandonato e ritirato il primo accertamento, evidentemente errato, al fine di formularne uno nuovo, ritenuto più corretto.

Tuttavia anche il secondo accertamento risultava particolarmente confuso ed errato, soprattutto nella quantificazione della superficie aziendale assoggettabile a tassazione. Riteneva la Commissione che le divergenze fossero dovute alla difficoltà di individuare precisamente la destinazione dei vari locali che non sempre sono utilizzati allo stesso modo ed anche all’uso promiscuo di alcuni ambienti.

Come affermato dalla Commissione, in ogni caso, tale difficoltà non può essere la ragione per sottoporre la contribuente ad un prelievo assai gravoso sommato a quello per lo smaltimento dei rifiuti speciali, elencato e documentato in atti.

Taglio della tassa

In conclusione la Commissione ha considerato assoggettabile a TARI la parte indicata dalla ricorrente nel proprio ricorso e nella propria consulenza tecnica, ovvero la parte residuale assoggettata al prelievo di quota fissa e quota variabile.

Tuttavia la CTP ha comunque ridotto tale area, ed entrambe le quote, del 60% visto e considerato che negli anni contestati non era stato mai svolto il servizio di raccolta rifiuti presso l’azienda, così giungendo a un risultato particolarmente favorevole per la contribuente (anche ai sensi di Cass. Civ. n. 19767/2020).

La Commissione ha ridotto del 60% anche la quota fissa della parte produttiva, non interamente cancellabile come recentemente statuito dalla Cassazione (n. 14038/2019), ed eliminato l’intera quota variabile.

Avv. Filippo Antonelli

Fonte: Impugnabilità dell’annullamento in autotutela della TARI
(www.StudioCataldi.it)

Il possibile impatto delle condotte extralavorative sul vincolo fiduciario. Profili penalistici: il revenge porn

 

  • Condotte extralavorative e incidenza sul vincolo fiduciario
  • Lavoratore pubblico vs. lavoratore privato
  • Disciplina penalistica e giuslavoristica: eventuali punti di contatto
  • Condotta extra lavorativa idonea a recidere il rapporto fiduciario
  • Profili penalistici: revenge porn
  • Salvo che il fatto non costituisca più grave reato
  • Le due ipotesi

Condotte extralavorative e incidenza sul vincolo fiduciario

Ultimamente, il tema riguardante l’incidenza delle condotte extra lavorative sul vincolo fiduciario è tornato a far discutere.

Il rinnovato interesse per la materia è sorto dalla verificazione di un evento che ha visto come protagonista una maestra d’asilo che, oltre ad aver subito il pubblico ludibrio a causa della diffusione, ad opera di terzi e contro la sua volontà, di materiale informatico ritraente la stessa in atteggiamenti intimi, per colpa di tale atto ha perfino perso il posto di lavoro.

Ma è davvero possibile fondare il licenziamento su fatti estranei all’attività lavorativa?

La clausola elastica di giusta causa, codificata nell’art. 2119 c.c. quale “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, si estrinseca in un inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore talmente grave da pregiudicare in maniera irreversibile il rapporto di fiducia intercorrente con il proprio datore di lavoro, tanto da necessitarne l’estromissione immediata dall’organizzazione aziendale.

 

Tale giustificazione al recesso unilaterale di parte datoriale non si realizza mediante il solo inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, ma è estensibile anche a condotte extra lavorative che, tenute al di fuori del contesto aziendale e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, sono parimenti idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (Cass. n. 26679/2017).

 

I giudici di legittimità, nel dare contenuto alla clausola generale ex art. 2119 c.c., hanno più volte evidenziato come il lavoratore, oltre ad essere tenuto a rendere la prestazione di lavoro secondo i criteri indicati dall’art. 2104 c.c., è onerato di condurre la propria vita, anche fuori dai luoghi e oltre l’orario di lavoro, in modo tale da non ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (ex multis, Cass. n. 776/2015).

 

Ai doveri di matrice contrattuale si affiancherebbero quindi dei veri e propri obblighi di protezione in capo al prestatore che gli imporrebbero, alla luce di quanto disposto dall’art. 2105 c.c., in combinato disposto con gli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c., di astenersi dal porre in essere tutti quei comportamenti che, per la loro natura e le loro conseguenze, risulterebbero in contrasto con le finalità e gli interessi dell’azienda o con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa (Cass. n. 11220/2004).

Tali condotte, affinchè possano costituire giusta causa di licenziamento devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare dell’elemento fiduciario, ossia risultare idonee, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio agli scopi aziendali: in particolare, essere contrarie alle norme dell’etica e del comune vivere civile (Cass. n. 26679/2017, Cass. n. 25380/2014).

 

Attenzione però a non cadere nell’errore di ritenere il giudizio sulla giusta causa di licenziamento come un giudizio astratto sulla moralità del lavoratore.

Infatti, non ogni condotta extra lavorativa del dipendente è rilevante ai fini disciplinari, ma solo quei comportamenti che, per la loro gravità, possano riflettersi in maniera negativa sulla funzionalità del rapporto lavorativo e/o siano idonei a compromettere le aspettative sul futuro puntuale adempimento della prestazione (Cass. n. 8390/2019).

 

L’apprezzamento della sussistenza della giusta causa di licenziamento (insindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivato) è riservato al giudice di merito che dovrà valutare: da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale e dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario sia tale in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. n. 26679/2017).

 

Lavoratore pubblico vs. lavoratore privato

Il metro di giudizio sulla gravità del comportamento potrà poi variare a seconda che quest’ultimo sia stato posto in essere da un lavoratore pubblico piuttosto che privato.

 

La Suprema Corte con la sentenza n. 776/2015 mette in evidenza che comportamenti che potrebbero essere considerati non di gravità tale da giustificare l’espulsione da un’azienda svolgente un’attività puramente privatistica, potrebbero al contrario rompere il legame fiduciario ed il connesso requisito di affidabilità che sta alla base di un rapporto di lavoro costituito per l’espletamento di un servizio pubblico.

Secondo il Supremo consesso il motivo che sta alla base di tale maggior rigore è il seguente: l’impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l’attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., non sono senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza, anche nella condotta extra lavorativa.

 

Disciplina penalistica e giuslavoristica: eventuali punti di contatto

Pertanto, parte datoriale potrà sciogliere unilateralmente il contratto di lavoro per giusta causa senza dover attendere la sentenza definitiva di condanna in sede penale.

 

Resta il fatto che il giudice, chiamato ad esprimersi sulla legittimità del licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito di rinvio a giudizio del lavoratore con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorché commessi antecedentemente l’instaurazione del rapporto di lavoro -, dovrà accertare l’effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, non potendo ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo rinvio a giudizio del lavoratore e quindi reputare il rinvio a giudizio di per sé bastevole ad incidere sul rapporto fiduciario e sull’immagine dell’impresa (si veda Cass. n. 18513/2016, Cass. n. 13955/2014, Cass. n. 29825/2008).

 

Condotta extra lavorativa idonea a recidere il rapporto fiduciario

Non ogni condotta extra lavorativa sarà idonea a recidere irreversibilmente il rapporto fiduciario, ma solo quella capace di incidere negativamente sulla funzionalità del vincolo lavorativo e di compromettere le aspettative sul futuro puntuale adempimento della prestazione.

 

 

Profili penalistici: revenge porn

La fattispecie penale è quella del c.d. Revenge Porn. L’intervento normativo è giunto solo dopo il caso di Tiziana Cantone, la donna che, dopo la diffusione in Internet contro la sua volontà di immagini “hard” che la ritraevano, era stata destinataria di pesanti offese ed aggressioni verbali che l’hanno portata a togliersi la vita, nel settembre 2016. Il caso aveva rilevato la straordinaria pericolosità del fenomeno, altrove già considerato ed affrontato, e soprattutto la necessità di intervenire normativamente contro uno dei tanti “Crimini d’Odio” che così poca tutela hanno avuto dal nostro ordinamento.

 

Il caso in oggetto è un tipico esempio del c.d. revenge porn: letteralmente la traduzione indica una “vendetta pornografica”, ossia una odiosa pratica consistente nel vendicarsi di qualcuno (spesso il/la precedente compagno/a) diffondendo via web (solitamente) materialmente sessualmente rilevante che lo/la ritrae.

Il processo di criminalizzazione di tale condotta nasce nel mondo britannico e via via si è fatto strada nel nostro ordinamento.

Si tratta di una delle principali novità di cui al c.d. Codice Rosso (L. 19 luglio n. 69/2019), che introduce nel codice penale il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

 

Si tratta di un articolo a struttura complessa, ricca di condizioni (alcune superflue), che rischiano di limitarne l’applicazione lasciando a molte condotte simili la sola tutela penale dei vecchi reati di diffamazione, atti persecutori e diffusione di riprese fraudolente.

 

Salvo che il fatto non costituisca più grave reato

Naturalmente tale eventualità porta al caso di sex extortion, ma trattandosi di reato di natura patrimoniale, non potrebbe assorbire la fattispecie in esame.

Piuttosto si crede che tale clausola operi per i reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, istigazione al suicidio aggravata.

 

Le due ipotesi

Al primo comma si delinea un reato comune, che pertanto può essere commesso da chiunque, con dolo generico, in cinque modalità alternative: inviare, consegnare, cedere, pubblicare o diffondere le immagini o i video di cui sopra.

Considerando l’espressione “contenuto sessualmente esplicito”, si ritiene che abbiano un rilievo giuridico le sole immagini e video di chiaro contenuto osceno, ossia quel contenuto idoneo ad eccitare le pulsioni erotiche del fruitore.

Fondamentale considerazione attiene inoltre alla natura di tali immagini “private”, ovviamente “senza il consenso delle persone rappresentate”, liberamente prestato.

 

Al secondo comma si delinea la responsabilità penale ai c.d. “secondi fruitori o distributori”, quei soggetti che ricevono il materiale e senza il consenso delle persone rappresentate lo inviano, consegnano, cedono, pubblicano o diffondono al fine di creare un nocumento.

In questo caso il soggetto attivo del reato può essere solamente chi riceve tali immagini o video, pertanto soggetti diversi da quelli di cui al primo comma dell’articolo.

Tuttavia la previsione di un dolo c.d. specifico (al solo fine di creare nocumento), restringe l’ambito di applicazione di questo comma, creando uno squilibrio normativo evidente.

A cascata, i commi 3 e 4 prevedono una serie di circostanze aggravanti ad effetto comune, tranne per quanto previsto al comma 4, nel quale l’aumento della pena è da un terzo alla metà nel caso di vulnerabilità della persona offesa.

 

Infine, al comma 5, viene indicata la procedibilità, a querela o d’ufficio a seconda della gravità della fattispecie.

 

Si consideri che, come per il reato di c.d. stalking (art. 612 bis c.p.) vi sono ben sei mesi di tempo per proporre querela, e questa può essere rimessa solamente nel processo.

Tale norma si è dovuta immediatamente confrontare con il c.d. lockdown per via dell’epidemia da Covid-19, con risultati non sempre incoraggianti a livello pratico.

 

Considerazioni pratiche

La norma contiene molti dubbi e molte perplessità, risentendo la vicinanza storica con fatti gravi che hanno portato ad una sua rapida approvazione, forse poco attenta. Si tratta di una legge che fotografa un drammatico passato ma non è assolutamente al passo coi tempi, presente e futuro.

Il fenomeno è dilagante, vario, sensibile alla trasformazione tecnologica e virtuale.

Il caso della maestra piemontese è ovviamente un pretesto ed un esempio, nel quale tuttavia tale norma sembra stia riuscendo a far emergere la reale tutela che il legislatore avrebbe originariamente architettato: l’autodeterminazione della persona offesa, il ricatto inaccettabile e la protezione che l’ordinamento deve fornire.

Tali tutele non erano precedentemente previste, nelle loro connotazioni specifiche e singolarmente considerate.

 

Avv. Marco Sirri e Avv. Filippo Antonelli

Fonte: Il revenge porn e le conseguenze sul lavoro
(www.StudioCataldi.it)

Acquisto di medicinali online e profili penali

Un caso particolare: l’art. 147 D.Lgs. 219/2006 tra incertezza normativa e giurisprudenziale

 

Nel mercato comune europeo basato sulla libera circolazione delle persone e delle merci, il divieto imposto dal legislatore italiano per gli acquisti di farmaci online sembra anacronistico, tuttavia il D.Lgs. 219/2006 è piuttosto chiaro e rigoroso nelle proprie prescrizioni. Solo l’ex Ministro della Salute Lorenzin ha tentato di attenuare il rigore di una disciplina che va a delineare una contravvenzione, quella prevista in particolare al co. II dell’art. 147 del decreto in oggetto, la quale prevede un’ammenda severa da 2.000 a 12.000 Euro e l’arresto sino ad un anno. Si tratta chiaramente di un reato di pericolo che il legislatore intende punire anticipando la tutela penale, ma tale ragionamento deve essere approfondito alla luce di un particolare inciso, presente nella norma: ci si riferisce alla”messa in commercio”. In virtù di tale inciso la dottrina, prima che la Giurisprudenza, ha elaborato orientamenti interessanti di cui è necessario dare conto, al fine di inquadrare il più possibile una fattispecie che, a primo occhio, può sembrare bagatellare ma che in realtà si rivela alquanto spinosa.

  • Le farmacie online
  • La fattispecie normativa
  • Il caso di specie
  • Orientamenti giurisprudenziali e dottrina
  • Conclusioni

Le farmacie online

Il futuro delle farmacie online che si occupano principalmente di importazione ed esportazione di farmaci, è legato indissolubilmente alle scelte che i Governi prenderanno in merito a questa delicata tematica.

Il caso che ha dato spunto al presente contributo era riferito ad una c.d. Farmacia Canadese; negli ultimi anni infatti le farmacie canadesi hanno perso il diritto di fare pubblicità ad esempio negli USA perché il Dipartimento di Giustizia americano ha evidenziato come numerose farmacie online, che apparivano sulla carta come “canadesi”, vendessero in realtà medicinali provenienti da altri Stati.

In Italia è penalmente sanzionato l’acquisto di farmaci per i quali occorrerebbe prescrizione medica, di conseguenza gran parte dello shopping online farmaceutico è vietato.

In particolare l’art. 55 del D.Lgs. 219/2006 sanziona penalmente l’assenza di autorizzazione all’importazione.

L’autorizzazione in oggetto è quella rilasciata dall’A.I.F.A. (associazione italiana del farmaco).

Il principale elemento valutato dalla P.G., molto spesso quella in servizio presso dogane ed aeroporti, è il quantitativo acquistato/importato, elemento inevitabilmente collegato al c.d. uso personale.

Fin da subito si può pensare alle fattispecie in tema di stupefacenti, che in qualche modo rientrano all’interno della medesima ratio legis, costituendo anch’esse fattispecie c.d. di pericolo e che portano la tutela penale ad anticipare il proprio intervento a salvaguardia del bene giuridico protetto.

È quindi probabile che all’esito dei controlli doganali volti a verificare il contenuto della spedizione (medicinali falsificati o non conformi) la P.G. faccia queste valutazioni.

Si precisa tuttavia che la Corte di Cassazione non si è mai espressa sul punto e, pertanto, manca il riferimento giurisprudenziale più autorevole.

Certamente la cornice edittale della contravvenzione prevede una risposta sanzionatoria che nella maggioranza dei casi porterà all’emissione di un decreto penale di condanna, con conseguente ammenda e verosimilmente la sospensione condizionale della pena, che può essere una spada di Damocle.

Le valutazioni sull’opportunità o meno di usufruire della sospensione condizionale non sono oggetto di questo contributo, ma certamente tale considerazione che dovrà guidare il legale nella strada da scegliere a tutela del proprio assistito.

 

La fattispecie normativa

Si riporta il testo dei primi due commi dell’art. 147 D.Lgs. 219/2006:

  1. Il titolare o il legale rappresentante dell’impresa che inizia l’attività di produzione di medicinali o materie prime farmacologicamente attive senza munirsi dell’autorizzazione di cui all’articolo 50, ovvero la prosegue malgrado la revoca o la sospensione dell’autorizzazione stessa, e’ punito con l’arresto da sei mesi ad un anno e con l’ammenda da euro diecimila a euro centomila. Le medesime pene si applicano, altresì, a chi importa medicinali o materie prime farmacologicamente attive in assenza dell’autorizzazione prevista dall’articolo 55 ovvero non effettua o non fa effettuare sui medicinali i controlli di qualità di cui all’articolo 52, comma 8, lettera b). Tali pene si applicano anche a chi prosegue l’attività autorizzata pur essendo intervenuta la mancanza della persona qualificata di cui all’articolo 50, comma 2, lettera c), o la sopravvenuta inidoneità delle attrezzature essenziali a produrre e controllare medicinali alle condizioni e con i requisiti autorizzati.
  2. Salvo che il fatto non costituisca reato, chiunque mette in commercio medicinali per i quali l’autorizzazione di cui all’articolo 6 non èstata rilasciata o confermata ovvero è stata sospesa o revocata, o medicinali aventi una composizione dichiarata diversa da quella autorizzata, è punito con l’arresto sino a un anno e con l’ammenda da duemila euro a diecimila euro. Le pene sono ridotte della metà quando la difformità della composizione dichiarata rispetto a quella autorizzata riguarda esclusivamente gli eccipienti e non ha rilevanza tossicologica.

Mentre il primo comma individua l’attività tipica di un soggetto qualificato (il titolare o il legale rappresentante di un’impresa che inizia una specifica attività di produzione di medicinali o materie prime farmacologicamente attive), il secondo comma individua un soggetto attivo generico: chiunque.

Sempre il secondo comma fa riferimento all’art. 6 del medesimo decreto, di cui infra:

  1. Nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del regolamento (CE) n. 726/2004.
  2. Quando per un medicinale è stata rilasciata una AIC ai sensi del comma 1, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti ad autorizzazione ai sensi dello stesso comma 1; le AIC successive sono considerate, unitamente a quella iniziale, come facenti parte della stessa autorizzazione complessiva, in particolare ai fini dell’applicazione dell’articolo 10, comma 1.
  3. Il titolare dell’AIC è responsabile della commercializzazione del medicinale. La designazione di un rappresentante non esonera il titolare dell’AIC dalla sua responsabilità legale.
  4. L’autorizzazione di cui al comma 1 è richiesta anche per i generatori di radionuclidi, i kit e i radiofarmaci precursori di radionuclidi, nonchè per i radiofarmaci preparati industrialmente.

Il richiamo all’art. 6 non è altro che la spiegazione della tipologia di autorizzazione necessaria al fine di considerare priva di rilevanza penale la fattispecie principale: la presenza o meno di una autorizzazione specifica da parte dell’A.I.F.A.

 

Il caso di specie

Nel caso sottoposto all’attenzione dello scrivente un soggetto non qualificato riceveva la notifica di un decreto penale di condanna per la violazione del secondo comma dell’art. 147, con conseguente condanna al pagamento di un’ammenda e applicazione della sospensione condizionale della pena.

In particolare il soggetto in questione aveva effettuato, più di tre anni prima, un ordine online presso una farmacia c.d. canadese, come anticipato in premessa, “fidandosi” delle rassicurazioni che i siti in questione pubblicano, con tanto di bollini per assicurare i pagamenti e le indicazioni certified by Visa.

A tutti gli effetti, l’impressione non è quella di trovarsi nell’illegalità.

Tuttavia le operazioni conducono alla spedizione del medicinale dall’India (paese quindi extra-UE) che allerta immediatamente la polizia di frontiera aeroportuale la quale, valutato il quantitativo (circa 300 pastiglie) presente all’interno della spedizione, decide di sottoporre a sequestro la stessa e comunicare la notizia di reato alla Procura competente.

Preliminarmente va considerato e sottolineato che il soggetto in questione aveva acquistato un farmaco, con il medesimo principio attivo di quello venduto in Italia, necessario e consigliato dal proprio medico specialista in virtù della patologia dell’indagato. L’indagato era infatti a conoscenza del principio attivo del farmaco acquistato in quanto reso edotto dal proprio medico specialista.

La scelta di effettuare l’acquisto online era dovuta unicamente a questioni economiche: il rapporto tra il prodotto venduto in Italia è a dir poco impari.

Le principali questioni pertanto attengono al quantitativo e al conseguente uso personale.

Altra questione attiene al fatto che durante le indagini la P.G. non ha identificato il principio attivo del farmaco sequestrato, pertanto l’indagato non sa nemmeno cosa gli sia stato spedito: potrebbe essere un prodotto non vietato, potrebbe non essere neanche un farmaco.

Un’ulteriore considerazione attiene altresì alla qualità del farmaco, che contiene il medesimo principio attivo di quello venduto (a caro prezzo) in Italia, con riferimento alla possibile equiparazione dei c.d. farmaci equivalenti.

Infine si consideri la necessità di effettuare una perizia sul farmaco in questione, essendo incerta addirittura la sua composizione chimica in base agli atti di indagine.

Certamente l’obiettivo della Procura è quello di dimostrare la messa in commercio del farmaco importato, ma dagli atti di indagine tale obiettivo non era di così facile realizzazione.

 

Orientamenti giurisprudenziali e dottrina

Come già anticipato, non vi sono orientamenti univoci e non è dato conoscere pronunce della Corte di Cassazione sul tema, pertanto il panorama è caratterizzato principalmente da interpretazioni dottrinali e da pochissime pronunce delle Corti di merito.

In particolare si segnala una pronuncia del Tribunale del Riesame di Roma, datata 02.09.2016, la quale afferma che è concessa l’importazione di un farmaco in Italia acquistato via Internet per uso personale.

La vicenda coinvolgeva un soggetto affetto da epatite C, infezione che negli ultimi anni ha visto emergere una terapia efficace a base di Ledipasvir (90 mg) e Sofosbuvir (400 mg), associati in un’unica compressa che in Italia ha un costo esosissimo pari a 44.000 Euro, fornita gratuitamente ai pazienti più gravi con costi a carico del SSN.

L’uomo era affetto da una forma non grave, pertanto avrebbe potuto accedere alla terapia solamente a partire dal 2017 e, per non attendere sino a tal punto, ha deciso di acquistare online il farmaco, distribuito dall’India, al costo di Euro 2.500, sequestrato all’aeroporto di Ciampino.

Il collegio romano si esprimeva a favore del dissequestro affermando che la contravvenzione alla base del provvedimento prevede la condotta di chi importa medicinali senza l’autorizzazione al fine di messa in commercio.

Pertanto l’importazione che costituisce reato è quella di chi abbia introdotto in Italia medicinali per farne successivo commercio, non anche quella di chi, come nel caso di specie, li abbia introdotti per farne esclusivo uso personale.

Il tribunale di Roma segnala l’assenza di giurisprudenza di legittimità e fa riferimento alle (poche) sentenze di merito che, sulla base delle direttive comunitarie in materia, ritengono sussistere rilevanza penale dell’importazione solo per i casi di commercializzazione dei prodotti, pertanto ai fini della vendita (Tribunale di Genova, 17.05.2010; Tribunale Bari, 30.01.2012).

La quantità limitata dei prodotti importati, congiuntamente all’accertata malattia dell’indagato e alla prescrizione medica prodotta, non posso far dubitare dell’uso esclusivamente personale.

Certo non mancano eccezioni sollevate dagli esperti del settore, con riferimento al medicinale in questione, come affermato dal presidente dell’Associazione EpaC onlus: è necessario considerare che l’importazione tramite prescrizione medica di un medicinale già registrato in Italia, non sarebbe comunque consentita.

Allora il discorso si sposta inevitabilmente sulla qualità e tipologia del farmaco acquistato, parametri da tenere necessariamente in considerazione.

Certamente qualora negli atti di indagine non sia specificato, ad esempio, il principio attivo di quanto in sequestro, gioverà pensare di richiedere una perizia tecnica al fine di asseverare le specificità del farmaco, ovvero di qualsiasi prodotto che sia effettivamente stato spedito all’acquirente (soprattutto nel caso che ispira questo contributo, avendo l’imputato una prescrizione medica; diverso sarebbe qualora vi siano meno certezze a sostegno della posizione del soggetto attivo).

Vero è che ai nostri fini la valutazione deve essere improntata al fine ultimo di tale condotta, ovvero la messa in commercio in assenza di uso esclusivamente personale.

Si segnala che la Procura di Milano sta procedendo ad una richiesta di archiviazione su larga scala con riferimento a queste notizie di reato: se le quantità importate sono elevate, le indagini proseguiranno, altrimenti sarà automatica l’archiviazione purché sia constatato l’uso personale.

La norma infatti prescrive che sia necessaria l’autorizzazione dell’A.I.F.A. ma tale autorizzazione non può essere richiesta da chiunque, poiché bisogna disporre di personale qualificato e mezzi tecnico-industriali. Non si può pensare che chi ordina un farmaco online possa anche solo in astratto munirsi di tale autorizzazione: la condotta richiesta sarebbe assolutamente inesigibile da un punto di vista giuridico.

Perché possa essere accertato l’uso esclusivamente personale, tuttavia, si richiede un acquisto di quantità “modeste”.

Il punto focale tuttavia sta nel fatto che nessuno ha mai specificato la soglia della modesta quantità nel caso in oggetto.

A sostegno del povero panorama giurisprudenziale è giunto nel 2017 un chiarimento dell’allora Ministro della Salute Lorenzin, che ha emanato una circolare (GAB 003261-P-23/03/2017) nella quale afferma che non può sussistere una valida alternativa terapeutica per il paziente italiano, quando il farmaco autorizzato in Italia non è effettivamente accessibile a tutti, in quanto troppo costoso.

Pertanto il parametro del costo economico del farmaco deve essere necessariamente incluso nelle valutazioni sulla rilevanza penale del fatto.

In effetti sono diversi i procedimenti penali in corso a seguito delle denunce da parte degli uffici doganali che sequestrano i pacchi destinati agli acquirenti online.

Si potrebbe obiettare che la normativa sanziona la mancanza di autorizzazione a monte dell’importazione, la mancanza di strumenti atti a controllare il prodotto, ma certamente non si potrà considerare illecita l’importazione di medicinali provenienti da farmacie aventi sede in UE.

L’interpretazione della normativa è tuttavia, allo stato, molto restrittiva.

 

Conclusioni

Certamente il divieto in oggetto a parere di chi scrive si presenta come anacronistico, a maggior ragione se si considerano le differenti normative all’interno dell’UE.

Le valutazioni del caso preso ad esempio in questo contributo, in assenza di indicatori giurisprudenziali granitici e consolidati, certamente devono tenere conto di tutti i parametri citati: definizione di quantitativo modesto, uso esclusivamente personale, condizione clinica/patologica dell’imputato, costo economico del farmaco “equivalente” venduto in Italia rispetto a quello acquistato, principio attivo non analizzato in sede di indagini ed incertezza sul contenuto del prodotto sequestrato, liceità del principio attivo del farmaco equivalente ed altresì la valutazione di liceità della pagina di e-commerce in sede di acquisto.

D’altronde l’acquisto si palesava come sicuro e garantito, con pagamento effettuato ad una società che avrebbe distribuito direttamente dall’Unione Europea, senza avere la minima contezza di una distribuzione extra-UE.

Se gli spunti indicati non dovessero bastare, certamente si ritiene opportuno indicare, oltre a testimoni specialisti (medici o esperti farmacisti), anche una perizia che vada a fondo della problematica.

Tutto ciò augurandosi che la Giurisprudenza di legittimità possa intervenire, a definizione delle problematiche interpretative ed operative sempre più presenti in siffatte fattispecie.

Naturalmente un intervento legislativo sarebbe ben più auspicabile.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: Acquisto di medicinali online e profili penali
(www.StudioCataldi.it)

Le ispezioni del Dipartimento di Igiene nelle imprese alimentari

Le fondamentali distinzioni di cui al decreto legislativo n. 193 del 2007 sulle ispezioni del dipartimento di igiene nelle imprese alimentari.

 

Avv. Filippo Antonelli – Il caso che ci occupa trae origine da un’ispezione condotta all’interno di un esercizio alimentare da parte dell’Unità Operativa Igiene Alimenti e Nutrizione di una AUSL regionale.

In particolare nel corso di tale ispezione venivano riscontrate alcune inadeguatezze all’interno dell’impresa alimentare, con conseguente indicazione di alcune prescrizioni da ottemperare entro il c.d. termine congruo che gli ispettori impartiscono in siffatte occasioni.

Durante l’ispezione veniva effettivamente constatata la presenza di infestanti all’interno delle trappole in misura superiore a quanto prescritto dal manuale HACCP dell’esercizio alimentare.

 

  • 1. Prescrizione e termine congruo
  • 2. L’ingiusta sanzione comminata
  • 3. La normativa: il decreto 193/2007
  • 4. Le linee guida del decreto 193
  • 5. Conclusioni

Prescrizione e termine congruo

Lo strumento della prescrizione, vale a dire della disposizione di rimozione della non conformità (come nel caso che ci occupa), entro un congruo termine assegnato, è riservato ai casi in cui le procedure di autocontrollo non siano omesse (in tal caso infatti sarebbe applicata direttamente la sanzione di cui al comma 6, art. 6 D.Lgs. 193/2007) ma si rivelino inadeguate, e a quelli in cui i requisiti siano rispettati (in caso contrario la sanzione è immediata secondo i commi 4 e 5 del medesimo articolo) ma inadeguati.

Si parla chiaramente di “tempo congruo”, pertanto di un termine a discrezione del Tecnico ispettore che effettua il sopralluogo, il quale nel nostro caso indicava all’uopo due giorni di tempo per ottemperare (sostituire le trappole in oggetto, già presenti e funzionanti).

La normativa di cui al D.Lgs. 193/2007 introduce sanzioni atte a punire determinate violazioni nell’ambito dei regolamenti CE 852/2004 e 854/2004.

La normativa stessa infatti afferma che una procedura può essere predisposta, ma inadeguata (comma 7 art. 6), pertanto prima di applicare la sanzione di Euro 2.000 è necessario dare tempo all’O.S.A. per sanare l’inadeguatezza.

In particolare il titolare dell’impresa provvedeva entro 24 ore ad ottemperare alla prescrizione impartita, notiziando altresì i tecnici intervenuti del rimedio operato per sanare l’inadeguatezza.

L’ingiusta sanzione comminata

Come spesso accade, purtroppo e tuttavia, i Tecnici ispettori incaricati notificavano meno di un mese dopo una sanzione amministrativa pari ad Euro 2.000 all’impresa alimentare con verbale di contestazione di violazione amministrativa, nella misura ridotta (1/3 del massimo o, se più favorevole pari al doppio del minimo) oltre spese di notifica con termine di 60 giorni per pagare; in alternativa è previsto che, entro 30 giorni dalla notifica, si possano far pervenire (con procedimento interno e in questa fase ancora non di competenza dell’Autorità Giudiziaria ordinaria) scritti difensivi con richiesta di audizione.

La normativa: il decreto 193/2007

Ragionando sui presupposti normativi della materia, d’altronde, la sproporzione e l’eccessiva pretesa sanzionatoria paiono evidenti.

Muovendo dalla normativa comunitaria (Reg. CE 853/2004) si assumeva nel caso in esame la violazione del co. 4 dell’art. 5, senza tuttavia tenere conto dei principi del sistema HACCP di cui al comma 2 ed in particolare alla lett. e) di tale comma: stabilire le azioni correttive da intraprendere nel caso in cui dalla sorveglianza risulti che un determinato punto critico non è sotto controllo.

Non solo.

Si assumeva altresì la violazione del comma 8 dell’art. 6 D.Lgs. 193/2007, senza tenere minimamente conto di quanto invece prescritto al comma 7 del medesimo articolo: nel caso in cui l’autorità competente riscontri inadeguatezze nei requisiti o nelle procedure di cui ai commi 4, 5 e 6 fissa un congruo termine di tempo entro il quale tali inadeguatezze devono essere eliminate. Il mancato adempimento entro i termini stabiliti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 1.000 a Euro 6.000.

D’altronde la sanzione richiamata dal co. 8 dell’art. 6 si riferisce chiaramente alla prescrizione di cui al comma 6 del medesimo articolo, dove tuttavia si legge che l’operatore del settore alimentare operante ai sensi dei regolamenti (CE) n. 852/2004 e n. 853/2004 […] che omette di predisporre procedure di autocontrollo basate sui principi del sistema HACCP […] è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 1.000 a Euro 6.000.

È proprio la mancata attuazione della prescrizione ad essere punita con la sanzione amministrativa da Euro 1.000 a Euro 6.000 (ridotta: Euro 2.000): prescrizione nel nostro caso adempiuta entro la metà del “congruo termine” assegnato!

Non è affatto possibile paragonare la violazione contestata a quella effettivamente commessa poiché trattasi di violazioni ontologicamente differenti.

Le linee guida del decreto 193

Si consideri anche l’allegato A al D.Lgs. 193/2007 (Linee di indirizzo per la verifica dell’applicazione del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 193). A tal proposito si legge alla pag. 4 che il d.lgs. 193/2007 distingue i provvedimenti da adottare nelle due diverse ipotesi:

a) Assenza di requisiti e procedure (art. 6 co. 4-5-6): applicazione di sanzione amministrativa e adozione da parte dell’autorità competente del provvedimento […];

b) presenza di requisiti e procedure, ma inadeguatezza degli stessi – ad esempio per carena di manutenzione – (art. 6 co. 7): assegnazione di congruo termine per l’adeguamento dei requisiti e delle procedure, applicazione di sanzione amministrativa solo in caso di mancata ottemperanza.

Se nella pratica e nella quotidianità di tali ispezioni la citata differenza (lampante) non dovesse essere così facilmente distinguibile, l’allegato A fornisce ulteriori elementi a supporto di una valutazione obiettiva e giusta da parte del tecnico ispettore: la valutazione dei dati precedenti relativi all’operatore. In altri termini: i precedenti del titolare dell’impresa alimentare.

Infine si consideri che al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa e di fornire sufficienti elementi di prova dell’illecito amministrativo rilevato, è opportuno che le carenze e/o inadeguatezze paventate siano dettagliatamente descritte nell’apposito verbale ed accompagnate da documentazione fotografica, requisiti spesso “trascurati”.

Conclusioni

Sono frequenti, purtroppo, i casi in cui gli ispettori delegati ai controlli non applichino con accuratezza la normativa in oggetto, spesso anche per difficoltà interpretative di un testo che, tuttavia, appare molto chiaro nel prescrivere e segnalare differenti tipologie di comportamenti sanzionabili.

Occorre pertanto che le imprese alimentari prestino molta attenzione agli esiti incerti di tali procedure, possibilmente consultando immediatamente un legale.

 

Fonte: Le ispezioni del Dipartimento di Igiene nelle imprese alimentari
(www.StudioCataldi.it)

Avv. Filippo Antonelli

Tari e rifiuti speciali: come impugnare l’avviso di pagamento

La peculiare possibilità di impugnare un avviso di pagamento della TARI, in relazione alla produzione aziendale di rifiuti speciali, alla luce di alcune pronunce giurisprudenziali

 

Avv. Filippo Antonelli – L’avviso di pagamento è un avviso bonario che precede il procedimento riscossivo vero e proprio che, a parere degli enti creditori (Comuni, Agenzia delle Entrate…), non sarebbe impugnabile così come indicato in calce allo stesso avviso. La Corte di Cassazione, invece, con la sentenza n. 14373 del 15.06.2010, ha dichiarato che gli avvisi bonari possono essere impugnati innanzi le Commissioni Tributarie anche nel caso in cui su di essi sia riportata la dicitura “atto non autonomamente impugnabile”.
La questione ruota attorno all’interpretazione dell’art. 19 D.Lgs. 546/1992 e la Suprema Corte ha affermato che sono impugnabili tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorché tale comunicazione non si concluda con una normale intimazione di pagamento, sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto, non assumendo alcun rilievo la mancanza della formale dizione “avviso di pagamento” o “avviso di liquidazione”.
In pratica, si fa leva sulla sua natura sostanziale di atto impositivo.

I rifiuti speciali e la disciplina della TARI

In primo luogo si consideri la Risoluzione n. 2/DF del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 09.12.2014 Prot. 47505. A fronte di un quesito posto, il Ministero procede all’approfondita disamina della disciplina dei rifiuti speciali introdotta in materia TARI dalla legge di stabilità 2014.

Ai sensi della L. 147/2013, art. 1 co. 649 primo periodo, nella determinazione della superficie assoggettabile alla TARI non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori, a condizione che ciò avvenga secondo la normativa vigente.

La nuova disposizione aggiunge una specificazione, pertanto: essa considera intassabili le aree sulle quali si svolgono le lavorazioni industriali o artigianali, che in genere producono rifiuti in via prevalente speciali, poiché la presenza umana determina la formazione di una quantità non apprezzabile di rifiuti urbani assimilabili.

Ne consegue che non può ritenersi corretta l’applicazione del prelievo sui rifiuti alle superfici specificamente destinate alle attività produttive, con la sola esclusione di quella parte di esse occupata dai macchinari: tale comportamento potrebbe dare origine a una ingiustificata duplicazione di costi, perché i produttori di rifiuti speciali farebbero così fronte tanto al prelievo comunale quanto al costo per lo smaltimento in proprio degli stessi rifiuti.

Prosegue il Ministero affermando che la disposizione deve essere intesa nel senso di consentire una tassazione più equilibrata e più rispondente alla reale fruizione del servizio, evitando l’applicazione della TARI nelle situazioni in cui il presupposto del tributo non sorge, come nel caso delle superfici utilizzate per le lavorazioni industriali o artigianali dove si formano, in via continuativa e prevalente, rifiuti speciali.

Ne deriva che sono sempre esenti dalla TARI i magazzini di produzione e quelli adibiti allo stoccaggio dei prodotti finiti produttivi di rifiuti speciali. Con tale risoluzione il Dipartimento delle Finanze del Ministero ha fornito alcuni chiarimenti in merito all’applicazione della tassa sui rifiuti sulle aree di produzione di rifiuti speciali.

La norma in sostanza esonera le imprese dal pagamento sulle aree nelle quali si svolgono lavorazioni artigianali o industriali produttive di rifiuti speciali, poiché la presenza umana determina la formazione di una quantità non apprezzabile di rifiuti umani assimilabili.

Conseguentemente deve escludersi l’applicazione del prelievo sui rifiuti in relazione alle superfici specificatamente destinate alle attività produttive, con la sola eccezione della parte occupata dai macchinari.

Si consideri in particolare il caso in cui sia un Comune a notificare l’avviso di pagamento.

Inoltre il terzo periodo dell’art. 1 co. 649 L. 147/2013 attribuisce ai Comuni un onere di individuare, con regolamento, le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili e i magazzini di materie prime e di merci funzionalmente ed esclusivamente collegati all’esercizio di dette attività produttive, ai quali si estende il divieto di assimilazione.

Di conseguenza si deve ritenere che i Comuni non hanno alcun spazio decisionale in ordine all’esercizio del potere di assimilazione.

Per le stesse ragioni sono escluse dall’ambito TARI le aree scoperte che danno luogo alla produzione, in via continuativa e prevalente, di rifiuti speciali non assimilabili, dove asservite al ciclo produttivo.

La giurisprudenza

Si consideri altresì quanto ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione (28.04.2017, n. 10548) in merito alla detassazione piena (invece di quella ridotta) per le aree societarie individuate quali luoghi di formazione di rifiuti speciali smaltiti in proprio.

Afferma la Corte che è pur vero che l’art. 62 co. III D. Lgs. 507/1993 attribuisce al Comune la facoltà di individuare categorie di attività produttive di rifiuti speciali cui applicare una percentuale di riduzione, facoltà che comunque esige esercizio regolamentare, restando in difetto le superfici esenti da tassazione (Cass. Civ., S.U., 30.03.2009, n. 7581).

Nella specie la riduzione del percentuale prevista da un regolamento comunale in via forfetaria, come tale applicata alle superfici, ovvero anche regolamenti comunali TARSU con precise condizioni di detassazione a percentuale fissa, ove risulti particolarmente difficile determinare la superficie di un’area, sono delle possibilità a disposizione del Comune.

Tuttavia, prosegue la Corte, la società che rende edotto il Comune della presenza specifica delle aree dove si formano i rifiuti speciali, non deve pagare la tassa nemmeno forfetaria; la società può provare che le aree dove si formano i rifiuti speciali sono totalmente esenti dalla tassazione.

Così afferma ancora la Suprema Corte (sezione tributaria, sent. n. 9858/2016), ribadendo pertanto quello che può essere considerato un principio di diritto.

Come altresì affermato dalla giurisprudenza di merito (Commissione Tributaria prov.le Brescia, sez. I, 16.02.2016, sent. n. 134), per determinare la superficie soggetta al pagamento dell’imposta TARI, introdotta nell’ordinamento dalla L. 147/13, non si tiene conto di quella parte in cui si formano rifiuti speciali, smaltiti a proprie spese dai relativi produttori e condizione necessaria è la dimostrazione dell’avvenuto trattamento conformemente alla normativa vigente. Di conseguenza l’Amministrazione Comunale non può esercitare alcuna pretesa su tali superfici, in quanto il Comune non rende in relazione ad esse nessun servizio.

Presupposto del tributo è il possesso, l’occupazione o la detenzione, a qualsiasi titolo, di locali o aree scoperte che insistono interamente o prevalentemente sul territorio del Comune, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti, urbani o assimilati.

Mediazione tributaria obbligatoria

In conclusione si ricordi che il ricorso dinanzi alle Commissioni Tributarie Provinciali deve, a fronte delle recenti innovazioni legislative, essere preceduto dal tentativo di mediazione tributaria presso l’Ente creditore ex art. 17-bis D.Lgs. 546/1992 . In particolare si considerino le tempistiche a tal fine rilevanti: entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’avviso, il ricorso deve essere depositato presso l’Ente creditore al fine di instaurare la procedura amministrativa di mediazione.

Tale procedura ha una durata di 90 giorni, al termine dei quali l’Ente può pronunciarsi o meno nel senso di un’adesione alla proposta. In ogni caso, entro il successivo e ulteriore termine di 30 giorni, l’atto deve essere depositato presso la Commissione tributaria provinciale al fine di instaurare il procedimento vero e proprio. Naturalmente in tale sede deve essere allegata la notifica effettuata ai fini della mediazione obbligatoria.

Avv. Filippo Antonelli

Fonte: https://www-studiocataldi-it.cdn.ampproject.org/c/s/www.studiocataldi.it/amp/news.asp?id=30365

La tutela dell’identità digitale e le false identità

La nuova presa di coscienza passa dalla specificità normativa.

 

1. FURTO DI IDENTITÀ DIGITALE

I dati sui cybercrime sono allarmanti, si tratta del fenomeno più vasto su scala mondiale.Solitamente il furto d’identità digitale è un’azione prodromica alla commissione di ulteriori illeciti, con alcune fasi che distinguono tale azione:

  • acquisire i dati sensibili o informazioni personali della vittima;
  • possesso e messa in commercio di tali dati;
  • utilizzo di tali informazioni per compiere ulteriori reati

Il furto d’identità digitale non è previsto nel nostro ordinamento penale quale fattispecie autonoma di reato.

L’ultima volta che la Giurisprudenza ha affrontato la questione, nel 2014, ancora una volta si è adoperata una differente fattispecie di reato, associandola al furto di identità digitale (come può essere il delitto di sostituzione di persona, ai sensi dell’art. 494 c.p.).

Certamente l’identità digitale costituisce un bene giuridico nuovo, esso è composto sia dal diritto di non essere falsamente descritto, o travisato, sul web, sia dal diritto di utilizzo estremamente esclusivo dei propri dati personali e non degli strumenti informatici (così Chiara Crescioli – Diritto Penale Contemporaneo – 5/2018).

Abbiamo oggi a disposizione identità digitali che sono veri e propri alter ego che espandono la nostra memoria, le nostre capacità di azione, di informazione e di comunicazione.

Pare sia arrivato il momento di abbandonare l’utopistica idea, per certi versi romantica, della “rete” intesa come spazio e luogo libero dal diritto, un porto franco non limitabile o condizionante.

2. UN’APPLICAZIONE PRATICA: IL FALSO PROFILO SOCIAL

La terza sezione penale della Suprema Corte (n. 42565/2019) approfondisce alcuni aspetti interessanti rispetto alla creazione di un falso profilo social, attraverso l’utilizzo di dati personali altrui.

Si tratta del reato di cui all’art. 167 D. Lgs. 196/2003 (testo vigente rispetto alla commissione dei fatti, prima dell’avvento del GDPR Reg. UE 2016/679 e quindi del D.Lgs. 101/2018), per l’illegittima diffusione dei dati personali.

La condotta in oggetto consisteva nell’utilizzazione, ad insaputa della persona offesa, dei dati personali di quest’ultima che era stata iscritta dall’imputato su un social networkmediante un profilo falso.

In particolare alla voce “sesso” di tale profilo erano stati inseriti i dati della persona offesa.

In tali indagini l’analisi dell’indirizzo IP è particolarmente importante ai fini probatori.

In particolare, non era dato sapere chi altri potesse mai essere a conoscenza dell’account creato dall’imputato, al punto da potervi accedere ed inserire i dati della persona offesa.

 

3. ALCUNI RILIEVI PENALISTICI: SI TRATTA DI REATO PERMANENTE

Nel rigettare l’avvenuta prescrizione contestata dal ricorrente, la Suprema Corte qualifica il reato del trattamento illecito dei dati personali come reato permanente.

Il testo previgente rispetto al G.D.P.R. (le cui fattispecie sono oggi rintracciabili, sostanzialmente in sovrapposizione, nei numeri 1 e 2 dell’art. 4 del Regolamento UE), individua la condotta di diffusione come la conoscenza dei dati fornita ad un numero indeterminato di soggetti. Nel caso in oggetto la condotta di diffusione, programmata e destinata a raggiungere un numero indeterminato di soggetti, si caratterizza (così Michele Iaselli – Altalex – 15.11.2019) per la continuità dell’offesa derivante dalla persistente condotta volontaria dell’agente (che ben avrebbe potuto rimuovere i dati personali resi noti ai frequentatori del social network.

4. CONCLUSIONI: UNO SGUARDO AL FUTURO

Siamo oggi di fronte ad una “frontiera mobile” che è indicativa di future tendenze, con inesplorate potenzialità già anticipate dalla c.d. intelligenza artificiale.

Ad avviso di chi scrive si può parlare di rivoluzione, proprio perché il fenomeno dell’identità digitale investe oggi ogni sfera delle nostre vite, andando ben oltre la comunicazione e l’intrattenimento.

Tale rivoluzione coinvolge lo svolgimento della nostra vita e porta con sé opportunità e vantaggi, ma anche difficoltà e conflitti che spesso possono tradursi in comportamenti illeciti, che minacciano diritti individuali e collettivi degni di protezione giuridica.

Il rischio concreto è che l’identità digitale sfugga al controllo dell’uomo.

Sembra pertanto fondamentale aggiornare il nostro ordinamento in un’ottica di apposita tutela dell’identità digitale, andando a proteggere e garantire specificamente profili della nostra vita che, come evidenziato in narrativa e nel caso portato ad esempio, continuano a prestare il fianco a sempre più evidenti attacchi e soprusi.

Anche nel caso di un “comune” profilo del social network che utilizziamo ogni giorno.

Avv. Filippo Antonelli

 

Fonte: LA TUTELA DELL’IDENTITÁ DIGITALE E LE FALSE IDENTITÁ

(www.juris-tech.it)

Per il giudice di pace di Forlì, più infrazioni commesse in un breve lasso di tempo sono punite con un’unica sanzione

 

Il caso trattato dallo scrivente si riferisce alla possibile applicazione dell’art. 8 L. 689/1981 alla normativa in tema di ZTL. 

  • Il fatto: verbali violazione Ztl
  • Ztl: i principi della Cassazione
  • Ztl, più violazioni, unica sanzione

Il fatto: verbali violazione Ztl

Il conducente di un’autovettura si vedeva notificare 4 verbali di contestazione in via successiva, ovvero dopo che questi aveva già compiuto la medesima condotta (ingresso in zona ZTL senza autorizzazione) reiterata, in un breve lasso di tempo.
In particolare il conducente non è stato preventivamente edotto della irregolarità della propria condotta (anche considerando la difficile interpretazione del regolamento).
Lo stesso si vedeva costretto ad opporre tutti i verbali avanti il Giudice di Pace.

Ztl: i principi della Cassazione

La Giurisprudenza (Cass. Civ., ordinanza 22028/2018) stabilisce che, in caso di plurimi accessi nella ZTL, ogni accesso effettuato non può essere considerato automaticamente alla stregua di una violazione autonoma, di per sé meritevole di apposita sanzione.
Ciò perché il numero di transiti nella zona a traffico limitato non incide sulla coscienza e volontà di violare la regola, tanto che alcuni accessi, nel caso in oggetto, avvenivano a distanza di nemmeno 24 ore l’uno dall’altro.
Pertanto sembra chiaro che in queste occasioni, chi ometta di utilizzare l’autovettura con il permesso operativo, andrà sanzionato una sola volta, poiché il numero di transiti nel breve lasso di tempo considerato non incide certamente sulla sua coscienza o volontà di violare la norma.
D’altronde la funzione educativa della sanzione non può esercitarsi sul soggetto fintanto che questi non sia reso edotto della sanzione irrogata.

Ztl, più violazioni, unica sanzione

Nel caso di specie il ricorrente ha avuto notizia della prima violazione solo dopo la commissione delle altre.
Pertanto si chiedeva al Giudice di Pace di annullare tutti i verbali elevati, ad eccezione del primo in ordine di tempo.
Così il Giudice di Pace di Forlì accoglieva la tesi difensiva (sentenza n. 976/2019), considerato il rilevante numero di violazioni identiche contestate al ricorrente nel breve arco temporale intercorso, concernenti la medesima condotta.
Si ritiene pertanto appropriata la ratio dell’istituto del concorso formale di cui all’art. 8 L. 689/1981.
Vista la mancata consapevolezza da parte del trasgressore nel compiere le reiterate identiche condotte in violazione della normativa di cui agli artt. 7/9 C.d.S., anche considerando che dopo la notifica del primo verbale questi ha immediatamente omesso di transitare nel varco vietato), le identiche condotte reiterate si sono in realtà risolte in una unica condotta.
Il ricorrente violava la medesima normativa, con una unica condotta consistita nell’accesso ripetuto nel breve lasso di tempo considerato, allo stesso varco di ZTL nella inconsapevolezza di violare la normativa.
Conseguentemente appare adeguata, conclude il Giudicante, l’applicazione di una unica sanzione (quella riferita al primo verbale) al minimo edittale.

Fonte: ZTL: plurime infrazioni corrispondono a plurime sanzioni?
(www.StudioCataldi.it)

 

Avv. Filippo Antonelli